febbraio 2010


La corruzione esiste ed è in crescita.

Da alcuni giorni si parla di tutti i casi di corruzione che stanno interessando le cronache politiche italiane. È il tema più dibattuto e preoccupante. Molti parlano di Tangentopoli 2, tra questi l’on. Antonio Di Pietro, altri parlano di casi isolati, il Pres. Berlusconi fa parte di quest’altro gruppo,  altri ancora di qualcosa di nuovo, la tesi migliore, a detta dell’on. Giuseppe Pisanu, Presidente della commissione parlamentare Antimafia.

Qualcosa di nuovo che non ha nulla a che fare con il vecchio modello della corruzione partitica delle Prima Repubblica, fondata sul finanziamento illecito delle relative fazioni politiche. “Oggi è la coesione sociale, è la stessa unità nazionale – afferma Pisanu – a essere in discussione, al punto da venire apertamente negata, anche da forze di governo. Si chiude l’orizzonte dell’interesse generale e si aprono le cateratte dell’interesse privato, dell’arricchimento personale, della corruzione dilagante.”

Ma l’on. Pisanu precisa che il problema “è innanzitutto politico e non possiamo certo risolverlo con il bipolarismo selvaggio e con lo scontro sistematico tra maggioranza e opposizione che ha trasformato questo scorcio di legislatura in una snervante campagna elettorale“. Bipolarismo malato e sistema sociale disgregato. Il primo la causa del secondo.

L’on. Pier Ferdinando Casini, intervistato da Barbara Palombelli su “28 minuti” di Rai2, affronta il tema del giorno, quello della corruzione. “Senza più valori di riferimento – spiega il leader dell’Udc – la politica rischia di ridursi a una sorta di lasciapassare per persone senza scrupoli. E’ un pericolo gravissimo per tutti, un tumore che bisogna estirpare. A differenza di Tangentopoli, oggi non si ruba più per i partiti ma per se stessi”.

I dati della corruzione sono inquietanti e la Corte dei Conti, li mostra: “La corruzione in Italia ha un impatto devastante sull’economia, sull’immagine e sulla morale del Paese e rappresenta una ‘tassa’ di 1.000 euro a testa, neonati compresi. Le stime parlano di un costo della corruzione compreso tra i 50 e i 60 miliardi di euro l’anno.

“Se le pervicaci resistenze che questa patologia sembra opporre a qualsiasi intervento volto ad assicurare la trasparenza e l’integrità nelle amministrazioni – il presidente della Corte di Conti, Tullio Lazzaro – possono dirsi una sorta di ombra o di nebbia che sovrasta e avvolge il tessuto più vitale e operoso del Paese – continua Lazzaro – non si può fare a meno di notare che l’oscuramento resta tuttora grave, non accenna neppure lentamente a dissolversi o a flettere nella sua intensità ispessita”.

Una corruzione che permea completamente la società, che non accenna a diminuire, che va di pari passo che l’evasione fiscale, che è principalmente un problema politico, un tumore, una patologia, da estirpare. Parole gravi. La problematica in questione sembra poter aver soluzione, neanche nel lungo termine. Si parla di una metodologia di azione, che orami è perfettamente entrata nella logica dell’intera società. Tutti sono coscienti del fatto che c’è bisogno di un particolare lubrificante per sveltire la macchinosa struttura burocratica e tutti abbiamo assunto per assodato questa teoria.

La corruzione esiste ed è in crescita. Indignarsi non basta. C’è bisogno di qualcosa di più, di qualcosa di veramente serio; ma cosa? Forse sarebbe auspicabile una rinascita civile che si basi sulle solide fondamenta della giusta moralità sociale. Ma forse siamo ancora troppo nell’astratto? La popolazione comune nel suo piccolo potrebbe anche accettare questa possibile soluzione, ma bisogna ricordare che la Legge deve impedire lo scempio nella Pubblica Amministrazione. La Legge non deve permettere un tale utilizzo privato della res pubblica. I furbi ci sono e ci saranno sempre, ma sarebbe necessario un unanime sforzo parlamentare per porre argine al dilagante deflusso di denaro pubblico, il problema è politico, è la politica a dover intervenire. C’è una caduta di valori, di tutti i valori.

Maleducati che vietano la legge.

La nostra madre natura, tutti i giorni ci permette un continuo assaporare di bellezze e dolcezze del tutto naturali, nate dall’unica rigenerante forza degli esseri viventi, nel proseguire un processo evolutivo con l’unico incentivo dato dalla necessità di sopravvivere e vincere la lotta evolutiva.

In tutto il bel processo messo in atto dalla natura, si pianta in mezzo l’uomo, essere intelligente per eccellenza, superiore in tutto, rispetto alle altre forme di vita presenti sulla Terra. Dico ciò in riferimento alla continua attività giornaliera che l’uomo esercita, da migliaia di anni. Un’attività di sfruttamento dell’intero ecosistema terrestre, a proprio piacimento.

I trofei da mostrare.

Vorrei soffermarmi, però, su una delle attività più utili e più inutili al tempo stesso: la caccia. La caccia fu l’unico modo, migliaia di anni fa, per l’uomo di sopravvivere. Diventò un’attività privilegiata, solo per nobili, nei tempi più recenti, fino a diventare quello che è oggi. La stessa Legge dell’11 febbraio 1992 n.157 (legge sulla caccia), ancora in vigore, la definisce all’articolo 10: “per quanto attiene alle specie carnivore, alla conservazione delle effettive capacità riproduttive e al contenimento naturale di altre specie e, per quanto riguarda le altre specie, al conseguimento della densità ottimale e alla sua conservazione mediante la riqualificazione delle risorse ambientali e la regolamentazione del prelievo venatorio.”

Il problema sorge nel momento in cui i cacciatori non si attengono perfettamente alla legge suddetta. Mi riferisco all’articolo 13, il quale dice espressamente: “I bossoli delle cartucce devono essere recuperati dal cacciatore e non lasciati sul luogo di caccia.” Peccato però che ciò non avvenga mai. Chiunque voglia fare una passeggiata in campagna, sicuramente noterà un continuo susseguirsi di bossoli, alcune volte inesplosi, caduti dalle tasche dei cacciatori. Si aggiungono: cartacce, scatole di sigarette, contenitori di cartucce, cicche di sigarette, ecc.

Un’altro articolo non rispettato è il 15: ”L’esercizio venatorio è, comunque, vietato in forma vagante sui terreni in attualità di coltivazione. Si considerano in attualità di coltivazione: i terreni con coltivazioni erbacee da seme; i frutteti specializzati; i vigneti e gli uliveti specializzati fino alla data del raccolto; i terreni coltivati a soia e a riso, nonché a mais per la produzione di seme fino alla data del raccolto.” Si aggiunge anche il comma 8 dello stesso articolo: “L’esercizio venatorio è vietato a chiunque nei fondi chiusi da muro o da rete metallica o da altra effettiva chiusura di altezza non inferiore a metri 1,20, o da corsi o specchi d’acqua perenni il cui letto abbia la profondità di almeno metri 1,50 e la larghezza di almeno 3 metri.” Altro articolo sempre non rispettato.

Concludo con l’articolo 21: “E’ vietato a chiunque: […] e) l’esercizio venatorio nelle aie e nelle corti o altre pertinenze di fabbricati rurali; nelle zone comprese nel raggio di cento metri da immobili, fabbricati e stabili adibiti ad abitazione o a posto di lavoro.” Praticamente i cacciatori sono dei refrattari alla legge. Mi riferisco esclusivamente ai praticanti una caccia dedita alla uccisione e trofeizzazione della preda; allo sbandieramento di un diritto, la caccia, che porta però perenne offesa ai proprietari dei fondi rustici su cui avviene.

Nel sentire ciò che dice il ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo (nella polemica nata in relazione alla direttiva europea sul prolungamento dei periodi di caccia), le associazioni dei cacciatori sono una lobby agguerrita e molto influente in Parlamento e capace di portare a casa sempre dei risultati legislativi a loro favorevoli.

La caccia deve essere il mezzo che lo Stato ha per tenere sotto controllo determinate specie e tutelare il territorio da possibili piaghe ambientali provocate da particolari animali nocivi. Tutto qui, non è scritto da nessuna parte che i cacciatori devono munirsi di tenaglia e farsi strada tra le recinzioni metalliche degli allevatori, entrare presuntuosamente nei terreni agricoli con campagnole e mezzi meccanici (alla Fantozzi), sparare a distanze ravvicinate ad animali al pascolo, fabbricati, trattrici in funzione (la legge lo vieta espressamente). Per fortuna esistono anche cacciatori, che per il piacere di una scampagnata con gli amici, percorre con cortesia e rispetto, gli agri privati, nell’intento di passare una giornata diversa, nel rispetto della legge scritta, e della legge non scritta: la cortesia.

Un Mezzogiorno che arranca, che vive un ritardo di troppi anni e paga le conseguenze di anni di cattiva amministrazione. E’ un dato di fatto: l’Italia è un Paese profondamente diviso al suo interno, purtroppo. Abbiamo un Nord che avanza, seppure con maggiori difficoltà rispetto al passato, e un Sud che arranca.

E’ questa la “questione meridionale” sulla quale oggi, a distanza di più di un secolo dalle parole di Giustino Fortunato, nostro conterraneo e fra i primi a sollevare il problema, l’attenzione pubblica si sofferma.

Questo all’indomani del monito forte e preciso della CEI : ”Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno esiste – scrivono i vescovi –e non ha solo un carattere economico, ma rimanda inevitabilmente a una dimensione più profonda”.

E’ infatti un problema gravissimo che investe ogni aspetto della vita sociale meridionale e non può essere risolto solo con una mera politica economica, ma implica la necessità di una riforma di carattere socio-culturale, che risollevi le sorti di un Sud in enorme difficoltà. E’ quanto già affermato da storici importanti come il sopracitato Giustino Fortunato o Francesco Saverio Nitti, e oggi riproposto dai Vescovi Italiani. E’ una triste verità. Purtroppo la Storia correva mentre noi camminavamo,  ma fare le vittime oggi è assurdo, anche perchè buona parte delle responsabilità è  nostra. Perchè? Perchè ancora oggi, nel 2009, non riusciamo a dire no alla corruzione, alla mafia, all’illegalità. E invece no. Dobbiamo avere uno scatto d’orgoglio, dobbiamo ribellarci a questo sistema.

Fare questo da soli, però, è impossibile. Per questo chiediamo aiuto al Governo che, di tutta risposta, approva il Federalismo Fiscale, taglia i fondi FAS.. E poi il Governo si meraviglia e si rattrista se i giovani emigrano! La domanda è questa: oggi, un giovane, uscito dall’Università, perchè deve essere costretto a lasciare la terra in cui è cresciuto, per trovare un lavoro? Questa è un’ingiustizia, un’ingiustizia che va avanti da troppi anni.. E nessuno fa nulla per risolvere questa situazione, anzi, come hanno dimostrato i dati, i governi ignorano sempre di più il Meridione, con la conseguente netta frattura fra Nord e Sud.

E allora: era necessario questo Federalismo fiscale fasullo? Soltanto uno dei tanti, troppi spot elettorali del Governo.

Soluzioni concrete cercasi.

Marta

Il dibattito in rete:

Corriere della Sera

Il Giornale

Clandestinoweb

La Repubblica

Test non solo inutile, ma anche controproducente.

In questi ultimi giorni si è scatenata la caccia all’unico parlamentare, dei 232 che hanno fatto il test antidroga promosso da Carlo Giovanardi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio per le Politiche antidroga, che è risultato positivo alla cocaina. Fatto eclatante, ma che qualcuno si aspettava. Solo 147 parlamentari, su 232, hanno dato il consenso a pubblicare i risultati del test affiancati dal proprio nome, 29 parlamentari non hanno consentito la pubblicazione degli esiti, 176 hanno ritirato il referto medico delle analisi e 56 non l’hanno fatto ancora.

Queste strisce non le volete?

A mio parere è strana questa volontà di alcuni parlamentari di non pubblicare gli esiti, quasi a proteggere l’unico parlamentare positivo alla coca, di cui non si conosce né sesso, né nome, ma soprattutto non è noto il partito. Resta anche strana la volontà del parlamentare in questione, di sottoporsi al test, sapendo di aver fatto uso di droga.

Il problema è serio, e molti lo stanno strumentalizzando. “L’unico risultato ottenuto – parole del deputato centrista Roberto Rao (UDC)- è stato quello di scatenare il gossip e la caccia all’unico colpevole, contribuendo così a ridestare l’antipolitica, riempire pagine di giornali e gettare un’ulteriore ombra sui costumi del Parlamento. Ora basta con le farse: si faccia un nuovo test, ma stavolta sia obbligatorio per tutti e a sorpresa. Altrimenti – conclude Rao – sarà solo l’ennesima presa in giro”.

Bisogna ricordare agli smemorati in Parlamento anche che: “L’Udc aveva proposto una legge che rendeva obbligatorio il test antidroga per i parlamentari, ma il provvedimento è stato bocciato in Parlamento – spiega Pier Ferdinando Casini leader dell’Udc – Bisogna che ciascuno si assuma le sue responsabilità. Oggi questo test è meglio di niente, anche se è solo un fatto simbolico”.

Le proposte ci sono state, ma sono state bocciate dal Parlamento stesso. Perché? Perché continuare queste inutili insinuazioni sul Parlamento di drogati? Perché non fidarsi dei nostri eletti? La risposta è semplice a tutte e tre le domande. Primo: ci sono alcuni parlamentari che fanno uso di stupefacenti, e riescono a far decadere una proposta contro i loro comportamenti subdoli. Secondo: le insinuazioni si sono verificate in questo singolo caso di positività al test, e allora la verità è che una percentuale, seppur minima di eletti, fa uso di droga. Terzo: come non ci si è fidati dei piloti e dei camionisti, per i quali il test antidroga è obbligatorio, perché noi cittadini dobbiamo fidarci dei parlamentari?

Possibile che non esista un regolamento parlamentare che vigili su questo tema? Non è questioni di partiti o di antipolitica, è questione di correttezza, di onestà e di limpidezza di fronte al popolo italiano, elettore e sovrano. Abbiamo il diritto di conoscere il nome di questo cocainomane.

Nato anche un gruppo su Facebook: Per un Parlamento trasparente: smascheriamo l’onorevole vigliacco!

Il problema degli asili nido comunali, in Basilicata, è più grave che in altre regioni.

E’ quanto emerge da una ricerca di Cittadinanzattiva che ha come oggetto di studio, appunto, gli asili nido di tutt’Italia, e fa emergere quelli che sono i problemi legati al loro costo, alla mancanza di strutture e, perciò, alla mancanza di posti per troppi bambini. Infatti, a fronte di una media nazionale di 297 euro al mese, in Basilicata i genitori dei bambini ne spendono 313.

E non è tutto. A Matera, infatti, vi è stato, negli ultimi 3 anni, un aumento dei costi dell’8% circa. Certo, in Basilicata il problema delle liste di attesa non sussiste poiché, secondo dati del Ministero dell’Interno, in Basilicata vi sono 22 strutture comunali, per un totale di 795 posti, e le richieste presentate nella nostra Regione sono state 778. Nessun richiedente è in lista d’attesa, quindi. Ma, analizzando la potenziale utenza, si scopre che la potenziale copertura sarebbe del 4,1%.

Quello degli asili nido è, però, soltanto uno dei tanti, troppi problemi legati alla scarsa attenzione della politica nei confronti della famiglia. In realtà, ora più che mai ci sarebbe bisogno di una politica riformista, che ponga grande attenzione a questo grande problema, visto anche lo spopolamento che sempre di più colpisce la Basilicata.

Le riforme in favore della famiglia sono un modo non retorico, per aiutare i lucani. La famiglia è il pilastro fondamentale della società, ma oggi è abbandonata a se stessa. C’è bisogno di una politica che possa sostenerla concretamente, che rivoluzioni il fisco con il quoziente familiare: chi ha più figli deve pagare meno tasse.

Marta

Mentre la tua terra sta morendo lentamente, mentre il tuo Paese sta andando a rotoli, mentre la corruzione dilaga.. non si può dire “non mi interessa”.
Questo mio messaggio, è rivolto a tutti i ragazzi, miei coetanei, che non vedono nella politica nulla di buono, ma qualcosa di sporco e vecchio.
Ebbene, la mia risposta sarà breve, ma chiara: se l’Italia è ridotta così, la colpa è anche un po’ nostra. E’ colpa di chi non ha nessun interesse di cambiare questa pessima condizione, questo degrado politico e morale.
E’ troppo facile lamentarsi di questo mondo, osservarlo mentre lentamente cade in un abisso troppo profondo. E’ facile, ma poco utile.
Il cambiamento può davvero avvenire se i primi a cambiare siamo noi: mettendoci la faccia, la passione, rischiando in prima persona, proponendo soluzioni concrete ai problemi.
Noi giovani, siamo il futuro di quest’Italia, dobbiamo soltanto crederci un po’ di più e lottare per le nostre idee. Siamo la classe dirigente del domani, la speranza per il giorno che verrà.
Vedo troppa indifferenza, ed è proprio quest’ultima la prima causa della grave questione morale che viviamo noi italiani.
Il cambiamento può passare attraverso le nostre mani. Non teniamole in tasca.
Marta

Ci possiamo salvare.

Il dissesto idrogeologico è l’insieme di tutti quei processi morfologici e superficiali che hanno un’azione fortemente distruttiva in termini di degradazione ed erosione del suolo e indirettamente nei confronti dei fabbricati costruiti dall’uomo. Tutti  sappiamo della conoscenza delle istituzioni in riguardo alla gravità della situazione, infatti “il rischio idrogeologico – si legge sul sito della Protezione Civile Italiana – è stato fortemente condizionato dall’azione dell’uomo e dalle continue modifiche del territorio che hanno, da un lato, incrementato la possibilità di accadimento dei fenomeni e, dall’altro, aumentato la presenza di beni e di persone nelle zone dove tali eventi erano possibili.”

Da un’analisi di Maurizio Bolognetti, Segretario Radicali Lucani, “oggi, il 38% delle vittime di alluvioni in Europa sono italiane. Le cause? La risposta è semplice: una diffusa cementificazione delle aree adibite un tempo alle piene dei fiumi. Una dissennata gestione del territorio con deviazioni di fiumi, cementificazione degli argini e deforestazione.”

L’urbanizzazione delle aree a rischio idrogeologico è molto presente in tutta la penisola italiana, ed è  proprio l’eccessiva antropizzazione delle suddette aree e delle zone in prossimità di versanti franosi, rappresenta il principale elemento di preoccupazione. Il problema è nazionale, governativo, e molto si potrebbe fare per organizzare un piano serio per salvare il territorio. Ma purtroppo l’Italia si è dimostrata brava a monitorare e tamponare, dimenticandosi la principale azione nella mani dello Stato: la prevenzione attiva.

Mi riferisco a tutte le opere necessarie per la messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale a rischio, ben 3.671 i Comuni a rischio idrogeologico. Da indagini di Legambiente, si evince che “nel biennio 2000/2001 lo Stato ha speso quasi 1,7 miliardi di Euro per interventi rivolti a riparare i danni delle maggiori calamità idrogeologiche. Spese che hanno prodotto pochi miglioramenti nella sicurezza del territorio, “pezze” sistemate qua e là per salvare il salvabile quando la carica distruttiva dell’evento si era ormai sprigionata. Se solo una parte dei fondi utilizzati per l’emergenza fossero impiegati per la manutenzione ordinaria del territorio e per opere di difesa idraulica compatibili con l’ambiente, si potrebbe finalmente ridurre il livello di rischio idrogeologico del nostro Paese, con più sicurezza per i cittadini e minori esborsi per lo Stato.”

Oltre all’azione svolta da Roma, ci sono anche le azioni dei singoli Comuni. Dal rapporto annuale “Ecosistema Rischio 2009” di Legambiente, si rammenta alle autorità locali che attraverso: “attività ordinarie di gestione del territorio, quali la corretta urbanizzazione la manutenzione degli alvei e delle opere idrauliche, gli interventi di delocalizzazione delle aree a rischio, nonché l’adeguamento alle norme di salvaguardia dettate dai Piani di bacino; e redazione dei piani di emergenza, aggiornati e conosciuti dalla popolazione, perché sappia esattamente cosa fare e dove andare in caso di emergenza, nonché l’organizzazione locale di protezione civile, al fine di garantire soccorsi tempestivi ed efficaci in caso di alluvione o frana.”

Sempre dal rapporto di Legambiente si nota che in Basilicata sono 123 su 131, “i comuni a rischio idrogeologico, individuati dal Ministero dell’Ambiente di cui 56 a rischio frana, 2 a rischio alluvione e 65 a rischio sia di frane che di alluvioni. Il primato negativo del rischio idrogeologico nel territorio lucano è detenuto dalla provincia di Matera, con tutti i comuni a rischio”, 31 su 31.

COMUNI A RISCHIO IDROGEOLOGICO IN BASILICATA

Regione Provincia Frana Alluvione Frana e alluvione Totale % totale comuni
Basilicata 56 2 65 123 94%
Matera 4 2 25 31 100%
Potenza 52 0 40 92 92%

Fonte: Report 2003 – Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e Unione Province d’Italia – Elaborazione: Legambiente

Secondo le pagelle di Legambiente, nate per stimolare i Comuni a comportamenti virtuosi, la maglia rosa della nostra regione spetta a Cirigliano, viceversa, la maglia nera spetta al Comune di Grottole. Resta però da annotare la poca partecipazione che i primi cittadini lucani hanno profuso nella collaborazione con l’associazione ambientalista italiana. Bisogna prima di tutto investire, in ricerca e opere di stabilizzazione del territorio, ma si potrebbe anche iniziare da un serio piano di emergenza e da una campagna di informazione della popolazione. Basta poco per iniziare, ma la strada è molto lunga. Ci sono di mezzo le nostre vite, sono i numeri che parlano.

La strada con il panorama più bello d’Italia.

La Strada Statale 18, o anche Tirrenica inferiore, è quel percorso stradale che collega, alternativamente all’Autostrada A3, Napoli a Reggio Calabria. Un’arteria di 535 km, che attraversa tutti i borghi e le città che si affacciano sul Tirreno meridionale. Un’infrastruttura con perenne vista mare, con il panorama più bello d’Italia, che collega le culture più vive e colorite del Meridione italiano.

Ma come tutte le cose belle, c’è sempre un’ombra, che oscura l’intero territorio percorso dalla SS 18. L’ombra in questione è la perenne impercorribilità dell’arteria viaria, per molte cause: lavori in corso, dissesto idrogeologico, caduta massi, frane, incidenti automobilistici, neve, forti piogge. Insomma un po’ di tutto mette in crisi una via che diventa l’unico percorso per migliaia di cittadini e turisti intenti a raggiungere uno dei tanti paesini e città collegati dalla Statale in questione.

Il tratto lucano della Tirrenica inferiore, è di circa una quarantina di km. Un percorso a due semplici e strette corsie, divise tra di loro da una linea bianca e divise dal mare, e dagli scogli, da un muretto in pietra, praticamente appesa sul ripido costone di roccia, che non manca mai di rendersi protagonista. È notizia recente, del 11-12 febbraio 2010, l’ultimo crollo di massi registrato al km 230, che si accompagna ad una lesione pericolosa del manto stradale, dovuta ad una discesa della superficie poco stabile del costone.

Un problema grave e molto complicato da studiare. Studi impraticabili via terra, ma eseguibili solo con l’ausilio di un elicottero del Corpo Forestale dello Stato. Tutti gli organi competenti si sono attivati per mettere in atto un progetto di rafforzamento delle reti di contenimento massi e delle paramassi, dell’eliminazione di punti critici del costone di roccia, messa in sicurezza del costone sottostante il manto stradale, rifacimento di quest’ultimo. Un lavoro di studio e di progettazione, che però cozza con la velocità con cui bisogna provvedere ad un’immediata riapertura alla percorrenza.

Oltre al problema infrastrutturale, si aggiunge inevitabilmente la questione economica, mossa giustamente da tutte le categorie economicamente sensibili all’accaduto: operatori turistici, cittadini vari, artigiani, piccoli imprenditori, che per motivi vari e sacrosanti, necessitano del tratto stradale per le loro attività. Venendo a mancare uno dei tre accessi alla città di Maratea, viene a mancare un afflusso continuo di turisti e curiosi, maggiormente presente di estate, che permette un’attività economica dedita al turismo.

Ai problemi della cittadinanza, delle infrastrutture, dell’economia, va però ricordata la pericolosissima questione del dissesto idrogeologico. È naturale che massi enormi vengano giù dopo un inverno piovoso, è naturale che ci siano degli spostamenti franosi del manto stradale, è ovvio tutto questo dopo che si è tagliato il costone roccioso per far passare l’infrastruttura. Perché nessuno si lamenta delle frane sulle Dolomiti lucane o nei calanchi disabitati del Basento? Perché lì non c’è nessuno a cui crea danno il naturale movimento del terreno. La strada è necessaria, ha una estasiante vista mare, porta un perenne flusso di turisti, ma è perennemente in pericolo. Cosa fare? Si aspetta una risposta dagli esperti che ci lavoreranno nei prossimi giorni.

Qualsiasi faccia va bene purché sia seria.

Si parla tanto di necessità di rinnovare la classe politica e dirigenziale del nostro Paese , ma la questione vera non è rinnovare, mantenendo gli stessi vizi, ma permettere alle persone serie, con facce vecchie e nuove, di amministrare la cosa pubblica al servizio di tutti. È questo un parziale sunto di ciò che l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, ha espresso in un incontro con alcuni amministratori locali lombardi.

La critica mossa dal cardinale è lucida e realistica: «Non ci si può improvvisare al servizio degli altri, tanto meno in politica. Non basta per rinnovare l’ethos politico mettere in campo facce nuove, occorrono persone serie, preparate, dove la serietà indica la piena consapevolezza della propria responsabilità».

Tettamanzi coglie l’occasione per riaccendere l’attenzione sulla vera funzione politica dei partiti: «E proprio perché sono strumenti fondamentali della democrazia, devono difendersi dal pericolo di ridursi a semplici comitati elettorali, che esauriscono il proprio compito a competizione elettorale terminata».

Altro concreto spunto di riflessione, nel suo discorso del cardinale, viene offerto in riferimento alla questione del crocifisso nei luoghi pubblici, e infatti aggiunge che: «In politica sempre più spesso il riferimento all’essere cattolici divide anziché unire». Non è possibile dividersi su chi è più cattolico e su chi è più moralista. La vera questione, per il cardinale, non è questa, ma missione essenziale per tutti i cristiani resta: lavorare insieme, perché uniti è «più facile – ha aggiunto Tettamanzi – ricercare e ottenere un maggiore grado di giustizia per i cittadini e soprattutto per i più deboli». Parole sante.

Le questioni poste dal cardinale, non possono che diventare attualissime, in un contesto politico fintamente dedito al rinnovamento, perennemente illuso nel suo auto-rigenerarsi, totalmente immerso nell’autoreferenziale voglia di andare avanti. Bisogna evitare le facce nuove, solo se sono unicamente proposte per ridar vita ad una vecchia logica di far politica, completamente sorda e immersa nel continuo sopravvivere.

Un bel art attack

È notizia ormai passata, quella della presenza di sconosciute navi nei fondali del Mediterraneo, ma restano ancor più ignoti il loro contenuto, i possibili container e i probabili fusti. Si parla di centinaia di relitti affondati volontariamente per inabissare tonnellate di rifiuti radioattivi e tossici. Sono navi che, terminata la loro vita sui mari, vengono utilizzate dalle ecomafie per liberarsi di consistenti quantità di materiale pericoloso. Da quel che dice il giornalista Gianni Lannes, del giornale web Italia Terra Nostra , le mafie italiane sono, però, soltanto il braccio esecutore di una modalità di smaltimento nota a tutti i governi internazionali e alle aziende produttrici di rifiuti nocivi.

La nave Jolly Rosso

Un modo molto utilizzato e molto redditizio. Ma come funziona? Primo passo: fornirsi di una carretta del mare pronta per andare in pensione in fondo al mare. Secondo passo: ricevere da governi internazionali e da società di tutto il mondo, attraverso traffici internazionali, tonnellate di rifiuti nocivi. Terzo passo: riempire la nave suddette con i materiali inquinanti fornitici e allontanarsi in mare aperto. Quarto passo: affondare l’imbarcazione. Su quest’ultimo punto ci si può arrangiare come meglio si crede: una mitragliata su un fianco della nave, un’esplosione nelle stive, aprire le valvole dell’autoaffondamento.

Dopo questo nostro piccolo art attack su come affondare una nave carica di veleni, vorrei sottolineare un una grave mancanza della sanità italiana: non esiste uno studio sistematico sull’incidenza dei tumori nelle aree interessate da questi gravi atti di terrorismo internazionale. Da un’indagine dei medici di base della zona di Paola, sul Tirreno, in provincia di Cosenza, dove spiaggiò la famosissima Jolly Rosso, nella fascia di età tra i 30 e i 34, i giovani di Paola si ammalano di tumore con una media del 2,90%, contro la media nazionale del 0,74%. Dati inquietanti, resi ancora più inquietanti dal silenzio istituzionale che si associa al continuo insabbiamento che viene messo in atto dai ministeri e istituzioni competenti.

Legambiente fiutò il gravissimo traffico di rifiuti radioattivi già in una sua inchiesta del 1995. Ma poco si mosse. L’associazione ambientalista continuò la sua azione di monitoraggio con altre inchieste: una nel 1996, su navi sospette e rifiuti nel Mediterraneo; una cronistoria nel 2004, specificatamente sulle “navi dei veleni” e sugli intrighi internazionali che ne hanno comportato l’inabissamento;  un rapporto del 2006 sulle ecomafie e sulle “navi a perdere”; fino al definitivo rendiconto del 2009 dei relitti ritrovati nel mediterraneo.

Centinaia di navi, di anche 200 metri di lunghezza, che popolano il nostro mare, dove noi tutte le estati andiamo a rinfrescarci dalla calura del giorno. Non si tratta più di gravi e ignoti traffici internazionali di rifiuti in cui sono stati uccisi giornalisti, capi di marina e tanta altra gente innocente, ma si tratta anche della nostra salute. Queste imbarcazioni sono nei fondali poco bassi delle nostre coste, entro 12 miglia, nelle nostre acque nazionali.

La cosa strana di questa storia è un semplicissimo dato di fatto, che rappresenta la modalità ben congegnata dello smaltimento di rifiuti tossici: nessun armatore ha mai rivendicato una delle navi scomparse. Strano.

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