Agricoltura


Solo perché è il secondo mestiere più antico del mondo, dobbiamo tenercelo? “Non è possibile che l’incolumità di cittadini e turisti venga di continuo messa a rischio da una minoranza di cittadini che, armata di doppiette, fa strage del patrimonio faunistico degli italiani. Tutti gli incidenti confermano quanto l’attività venatoria non sia solo anacronistica e crudele ma anche molto pericolosa.” È quanto dice il Ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, che trova il mio pieno consenso.

Numeri che dicono tutto: dal 2 settembre 2009 al 31 gennaio 2010 ci sono stati 23 morti ammazzati e 53 feriti (io li chiamerei quasi-morti). 76 persone sono un numero elevatissimo. Sarebbe elevato (per me) anche un solo morto o un solo ferito. In Italia ci sono circa 700 mila cacciatori che ogni anno ammazzano a destra e a sinistra, ovunque trovano un parcheggio per le auto, qualsiasi cosa che si muova. Sparano anche i falchi e i corvi, per allenarsi.

I cacciatori sono degli assassini e non solo di animali, come dimostrano le 23 vittime. E poi qual è il motivo che spinge questi signori ad armarsi e partire per distruggere qualsiasi forma di fauna? Il divertimento? Lo sport? L’agonismo? L’aria aperta e le scampagnate? Se fossero queste le motivazioni, credo che si sarebbe di fronte ad una massa di assassini che uccide per futili motivi. Se volessero fare tutte quelle cose, le potrebbero fare anche con una macchinetta fotografica o come fanno tutti gli altri cittadini. E se proprio vogliono spaccarsi i timpani con le fucilate, che andassero al poligono.

Sottoscrivete anche voi il manifesto “La Coscienza degli animali” già sottoscritto da 115 mila persone, tra cui il ministro Brambilla, l’oncologo Veronesi, il direttore Feltri, il grande Renato Zero, e tanti altri ancora. Altro numero significativo: l’83% degli italiani è contrario alla caccia e vorrebbe abolirla. Perché non si ascolta la voce della stragrande maggioranza della popolazione? Nell’Inferno di Dante non c’era posto per i cacciatori, ma io li inserirei ora. Per la legge del contrappasso, sarebbero tutti lì, con i fucili in mano a spararsi l’un l’altro e a nutrirsi come cannibali delle proprie vittime.

Essere cacciatore crea nella propria testa una terribile convinzione: essere superiori a qualunque animale, compreso l’altro uomo. Con un fucile in mano si diventa come dei droidi. L’uccidere deforma la propria umanità, la propria coscienza, la propria mentalità. L’uomo si è evoluto, ha ideato tecnologie per nutrirsi e non deve più uccidere animali selvatici. La caccia non ha più senso in Italia e nel mondo civilizzato.

Io mi chiedo: perché hanno fatto tanto per reinserire sul territorio le varie specie estinte (cinghiali, lupi, mufloni, quaglie, lepri comuni e tanto altro ancora) per poi sparale ancora? Solo per portare nuova carne nei piatti dei cacciatori o dei ristoranti, che anche illegalmente, da essi si riforniscono. Molti cacciatori giustificano la propria esistenza con il fatto di dover ripulire le campagne dagli animali che distruggono le coltivazioni. Ci sto! Ma per fare questo non c’è bisogno di sparare di tutto e di più, giorno e notte, per 6 mesi ininterrottamente. Se ci sono animali selvatici che disturbano l’agricoltura, o si dà licenza all’agricoltore di sparare, o si autorizza alcuni cacciatori ad intervenire su chiamata dell’agricoltore.

E poi facendoci due conti, perché non sfruttare a nostro favore la grande passione che questi cacciatori hanno per l’assassinio. Si potrebbero aumentare le tasse che i cacciatori sono costretti a pagare, anche di 200 euro a cacciatore, che moltiplicato per 700 mila, fa 140 milioni di euro da spendere per creare zone protette e ricreare faune e flore distrutte da questi mostri e risarcire le vittime civili della caccia. Se proprio non si può abolire la caccia, perché non la si rende eccessivamente onerosa? È un buon modo per dissuadere i meno convinti e per profittare sugli irriducibili.

A parte la contraffazione vera e propria (l’Italia è il terzo produttore mondiale di merci contraffatte, dopo Cina e India), legalizzata di fatto, perché i controlli sono davvero misera cosa di fronte all’immensità del malaffare che si nutre sulla merce falsa, in Europa è presente una presa per i fondelli a carico dei consumatori e di tutti i cittadini onesti. Sto parlando del processo industriale che sforna ogni giorno migliaia di prodotti Made in Italy, ma le cui materie prime non sono affatto italiane.

Non c’è migliore esempio di questo: la produzione di derivati del pomodoro (pelati, salse, concentrali, ecc.) avviene su prodotto importato dalla Cina dentro grossi fusti, acquistati dai grandi marchi italiani e poi imbottigliati e inscatolati sotto i nomi illustri dell’industria italianissima di cui noi tutti ci fidiamo. In Cina i pomodori vengono prodotti con metodologie e medicinali vietati da 30 anni in Italia. Questo è tutto legale, alla faccia di chi si nutre di quelle schifezze e alla faccia degli agricoltori italiani che investono e producono nel totale rispetto delle leggi per poi svendere i propri prodotti.

Altro esempio che mi piace ricordare è quello dei grandi marchi italiani di altissima moda, che commissionano la produzione dei loro preziosissimi capi di abbigliamento ai cinesi, che nelle varie periferie italiane, lavorano come droidi per rifornire le boutique dei ricconi. Insomma è questa la realtà in cui siamo costretti a muoverci. Ma cosa si può fare per risolvere questa situazione? Cosa si può fare per dar vita finalmente al Made in Italy vero e proprio?

Per me Made in Italy vuol dire che un bene, una merce, un prodotto, è stato completamente lavorato in Italia. Tutti i passaggi produttivi devono essere svolti sul suolo italiano, nelle fabbriche italiane, con le materie prime italiane. Purtroppo chi ci governa ha una concezione diversa dell’italianità. Infatti, per loro basta che l’ultimo passaggio produttivo sia fatto in Italia e già si parla di Prodotto Italiano e i miei esempi precedenti vi rendono l’idea di tutto questo.

Perché chi ci governa, a livello nazionale e a livello europeo, tutela una incoerenza del genere? A chi conviene mantenere e tutelare questa situazione così fatta? Alla Barilla? Alla Cirio? Alla Granarolo? Alle griffe della moda? Perché chi ci governa consente elevati extra profitti a questi delinquenti? Forse perché parte di quei profitti viene “investito” nelle loro campagne elettorali? Qualcuno potrebbe dire che questa è la politica. Io pretendo un’unica cosa: un regolamento europeo per dare finalmente una disciplina equa, coerente ed onesta a questa materia davvero importante.

Serve un’etichettatura che individui esplicitamente e dettagliatamente la provenienza delle materie prime utilizzate, delle normative rispettate, quanta energia è stata consumata, quanto inquinamento è stato prodotto, tutte le aziende che hanno partecipato alla creazione di quel prodotto e tutte le notizie utili al consumatore per poter scegliere consapevolmente . Le asimmetrie informative sono il male assoluto della nostra economia e sono tra le prime cause del continuo crescere delle disparità economiche, tra ricchi che diventano sempre più ricchi e poveri che impoveriscono ancor più.

Libertà dei mercati e grande presa in giro.

Dal Sole 24 ore, di qualche giorno fa, in un angoletto sperduto della grande quotidiano ho intravisto queste parole chiave per qualsiasi imprenditore-produttore italiano: “dazio”, “dumping” e “cinese”. Mi sono detto, qualche capoccione ha messo i dazi contro le importazioni cinesi… sarebbe una manna dal cielo… una delle tante azioni contro la concorrenza sleale (perché di concorrenza sleale di parla) e l’ossessiva presenza di prodotti pericolosi nel nostro commercio nazionale, tutti provenienti dall’Indocina. Giocattoli con veleni chimici, vestiti con coloranti pericolosi per la pelle, alimenti con alte concentrazioni di inquinanti chimici banditi dall’Europa da 30 anni, attrezzatura di bassissima qualità, e tanto altro ancora. Molti potrebbero contraddirmi in molti modi, ma la realtà è questa.

Un’altra cosa va detta: comprare cinese conviene a molti consumatori, che si vedono in mano un prodotto sicuramente scadente, ma di sicuro onestamente venduto come scadente e cinese. È come se premiassero chi vende pubblicamente cinese e chi dice pubblicamente che la propria roba è cinese. Perché chi ci assicura l’autenticità di molti prodotti firmati e poi importati? I primi che ci guadagnano dalla Cina sono i produttori che possono sfruttare a loro piacimento l’import cinese, spacciandolo per italianissimo. Questa presa per il culo, i consumatori italiani l’hanno subita per parecchi anni, ed ora si adattano al mercato comprando poco e dando pochissima fiducia alle grandi marche europee.

Ripeto: i primi che ci guadagnano nello sfruttare le grandi opportunità che dà la Cina, sono i grandi marchi italiani: l’alta moda, l’agroalimentare, l’industria, l’automobile, il mobile, l’abbigliamento, il metalmeccanico, il chimico, e potremmo continuare con tutti comparti economici della nostra Italia. Il ragionamento che questi signori fanno è molto semplice e soprattutto molto conveniente: io vado in Cina, produco lì e poi importo qui i prodotti e li vendo come se fossero sempre stati in Italia; o peggio ancora, li compro dalla prima ditta cinese che vende prodotti simili ai miei e poi ci metto il mio marchio italianissimo. La convenienza sta tutta nel costo di produzione bassissimo, nel basso costo fisso di importazione che diminuisce all’aumentare della quantità di prodotto importato, nei pochissimi controlli alle frontiere e soprattutto a Napoli, e nella vendita ad alti prezzi, che confonde anche il consumatore attento alle marche.

Ma risalta subito all’occhio la truffa che si cela dietro un acquisto del genere: bassa durata del prodotto, bassissima qualità del materiale, assenza di garanzie nella produzione, ecc. Quindi il consumatore paga tanti soldi per avere un prodotto che poteva tranquillamente pagare un decimo di quello che ha pagato. Questa presa per i fondelli non va giù a nessuno. Ma soluzioni possibili nell’immediato non ce ne sono. Soprattutto se si leggono i dati del Sole 24 ore: importazioni di concentrato di pomodoro dalla Cina aumentate del 174% in un anno; e poi: la Cina primo produttore manifatturiero del mondo, in tre anni ha sostituito gli Stati Uniti d’America. Dati sconcertanti, soprattutto se si pensa che qualcuno richiede questi prodotti e sapete chi è che li richiede? Ve l’ho detto prima: i grandi marchi e produttori italiani, che arrotondano gli utili “allungando il vino con l’acqua”, cioè mescolando i loro prodotti con altri prodotti che costano di meno, ma vendendo tutto allo stesso prezzo.

Quindi se ce la dobbiamo prendere con qualcuno, prendiamocela con i grandi marchi italiani e con gli importatori, che fanno di tutto per immettere queste merci sul nostro territorio, trovando una convenienza enorme e profitti che fanno invidia anche al traffico di stupefacenti. Altra colpevole eccellente è la nostra Europa liberista che si apre all’estremo oriente come una donna di facili costumi, pensando alla libertà dei mercati, delle merci, delle persone e dei capitali cinesi che continuano a comprare debito europeo, dopo aver riempito i propri forzieri di debito e dollari americani. Insomma un’Europa vile, forte con i deboli e debole con i forti. Un Europa fatta di belle parole e di belle immagini, di strette di mano e di sudate intese, quasi paradisiaca e futuristica, inarrivabile. Io parlo da europeista convintissimo, ma la realtà è questa.

Un’Europa ed un’America ferme con il timore di ripercussioni macroeconomiche che la Cina potrebbe attuare nei loro confronti. Un’Europa ed un’America pronte ad incontrare ad orecchie basse i gerarchi cinesi. Un’Europa ed un’America incapaci di accordarsi per stabilire nuovi rapporti di forza più vantaggiosi tra le rispettive monete occidentali e la moneta cinese e troppo vili per alzare barriere doganali. Ma una soluzione intermedia che potrebbe accontentare tutti sarebbe quella della tracciabilità produttiva. Cioè: io consumatore devo sapere vita morte e miracoli del prodotto che sto comprando: le materie prime, i lavoratori, il trasporto, i chilometri percorsi, le ditte che ci hanno lavorato, il diretto responsabile di possibili danni. Insomma sapere tutto per decidere cosa comprare in piena libertà ed avere i mezzi informativi per decidere liberamente il meglio per le mie aspettative. È questa la vera libertà: la conoscenza e l’informazione. Negate queste due cose, si finisce in un mondo contrattualmente poco efficiente e quindi più povero. Parola chiave del mondo di oggi è: asimmetria informativa.

Alga ed inquinamento. Alte concentrazioni di nitrati e altro ancora.

Ieri, 12 giugno, sulla emittente radiofonica Basilicata Radio 2, c’è stata un’intervista al sindaco di Spinoso, paesino che si affaccia sulla diga, Pasquale De Luise, giovane primo cittadino, che ha riassunto brevemente le recenti vicende del Pertusillo: “Il primo giorno in cui mi sono imbattuto in questo rivolo rosso è stato il 18 maggio, immediatamente ho fatto un fax a tutte la autorità competenti. Due giorni dopo abbiamo commissionato uno studio privato, per fare delle analisi. Abbiamo ricevuto risposta dopo due giorni e dalle analisi, è venuta fuori la presenza dell’alga cornuta, alga già presente da tempo nella diga. Non ci siamo fermati e abbiamo commissionato altre analisi all’Agrobios, attraverso al provincia di Potenza. Non ricevendo dopo 4 giorni le analisi ufficiali dell’Arpab, abbiamo inviato un fax all’assessore all’ambiente Mancusi chiedendo urgentemente un incontro per parlare della situazione. Così è nato l’incontro, e non per iniziativa dell’assessore. Peccato non sia stata presente la stampa all’incontro (per volontà dell’assessore), anche per una questione di trasparenza, la democrazia …”

La diga prima dello scempio

Raccogliendo altri spezzoni dell’intervista, si può apprendere che: “C’è stata poca attenzione da parte della regione.” In più: “l’alga si è propagata nella diga nei giorni successivi. Dalle analisi si apprende che il tutto è dovuto al cambiamento della fotosintesi, tra troppa luce e troppa umidità. Non si era mai avuta negli altri anni una situazione del genere, che ha favorito questa crescita abnorme.” Le analisi dell’Arpab sono state inviate ai sindaci e agli altri enti locali. Ma una domanda sorge spontanea: perché non pubblicarle su qualche giornale? Per non darle alla stampa? Perché non pubblicarle sul sito dell’ente o di qualche altro ente?

Ma al sindaco non è stato chiesto ad esempio: il potabilizzatore sotto Missanello funziona, è attivo oppure no? E se non funziona, perché? Qual è la causa scatenante di questa sovreccitazione dell’alga? Ma il sindaco si è fatto scappare di bocca una frase emblematica e che riassume tutta la situazione: “Ma l’alga qualcosa se la deve mangiare, si deve nutrire di qualcosa.” E dopo poche battute ha continuato il discorso aggiungendo che “ci sono alte concentrazioni di nitrati”. Tesi che ragionevolmente tutti sostengono, ma che mai nessun politico ha detto pubblicamente. Perché? Perché, per diminuire l’inquinamento della diga e permettere un abbassamento della concentrazione di nitrati, bisogna eliminare un’altissima quantità di allevamenti animali, e soprattutto bovini. Un discorso mal accolto dalle popolazioni della Val d’Agri. L’altra accortezza possibile era aprire le saracinesche della diga, rilasciando acqua e favorendo un ricambio della acque.

L'impianto di potabilizzazione e la centrale idroelettrica di Missanello

Una vacca produce 83 chilogrammi di azoto all’anno, che va moltiplicato per il numero totale delle vacche presenti sul territorio sovrastante la diga del Pertusillo. Un inquinamento considerevole, a cui si aggiunge il possibile sversamento di melassa attuato dai uno stabilimento di Viggiano, su cui stanno indagando le forze dell’ordine, in più, possibili ripercussioni dell’inquinamento proveniente dai pozzi petroliferi e dai gas rilasciati dai processi chimici che si svolgono al centro oli di Viggiano, e chissà quali altre fonti di inquinamento che noi possiamo solo immaginarci.

In poche parole il processo che ha portato al totale annerirsi della diga potrebbe essere questo: per molti anni ci sono stati sversamenti illegali, sversamenti legali, flussi di liquami dalle stalle, inquinamento in generale, altre fonti di disturbo. Inquinamento e condizioni climatiche favorevoli hanno aiutato di molto l’abnorme proliferare dell’alga, che ora però inizia a morire, essendo finiti i nutrienti o l’ossigeno nell’acqua della diga, usato nella fotosintesi. Ecco perché anche i pesci soffocano e respirano a malapena. In più l’alga inizia ad imputridire e ad emanare quel fortissimo tanfo nauseabondo che si sente passando vicino l’invaso. Un tanfo dovuto alla decomposizione anaerobica dell’alga, che aggrava ancor più l’ecosistema della diga, negando ancor più aria e nutrienti alle altre forme di vita. Tutti si ostinano a dirci che la responsabile di tutto è l’alga cornuta, cioè che essa sia causa e conseguenza. Ma pensare questo è da idioti, soprattutto conoscendo i precedenti. Molti sono ciechi o finti ciechi, non vedendo che la causa di questa situazione è l’inquinamento perpetuato per anni e la conseguenza è l’alga, che ha come uniche colpe quelle di essere innocua, di nutrirsi di nitrati, di subire gli effetti climatici eccezionali della valle dell’Agri e di essere cornuta.

L’ente preposto per le analisi, l’Arpab, ha adempiuto il proprio dovere, monitorando ed analizzando le acque della diga, ma le analisi dove sono? Sono sul sito web dell’ente? Sul sito dell’Arpab non c’è un fico secco in merito alla questione della diga del Pertusillo. Ma a cosa serve questo sito? A cosa serve questo ente? A cosa servono le Arpa regionali di tutta Italia, se poi le analisi, i dati, le statistiche ambientali se le tengono ben strette nei loro cassetti? Qualche cosa da nascondere c’è?

Forti concentrazioni di nutrienti artificiali.

Ho notato su internet alcune analogie tra l’attuale situazione della diga del Pertusillo e il lago di Vico, in provincia di Viterbo, che da molti anni ha presente una forte presenza di eccitazione di alghe pericolose e concentrazioni di inquinanti. In breve vi espongo la grave situazione del lago di Vico. Lascio a voi trovare le analogie.

“La Riserva Naturale del Lago di Vico estesa per circa 3.200 ettari, comprende nel suo interno ambienti di grande interesse naturalistico quali quello palustre limitrofo al lago e un interessante bosco costituito dalla faggeta depressa del Monte Venere. La Riserva Naturale del Lago di Vico fa parte del più ampio sistema dei Parchi e delle Riserve Naturali della Regione Lazio la cui creazione è motivata dalla necessità di proteggere ambienti ed equilibri naturali di grande importanza, per il miglioramento della qualità della vita, e di gestire correttamente, in modo razionale e duraturo, le risorse naturali in essi contenute nell’interesse della collettività regionale. Grazie all’integrità biologica che lo caratterizza, il Lago ospita una fauna d’eccezione: le sue acque sono ricche di numerose specie di pesci tra cui il luccio, che può raggiungere notevoli dimensioni, il coregone, la tinca, il persico reale, l’anguilla.” A leggere ciò che c’è scritto sul sito della Riserva Naturale del Lago di Vico, in provincia di Viterbo, viene quasi voglia di andarci.

Lago di Vico

Spiace però informarvi del grave inquinamento che attanaglia ancor’oggi il nostro amato lago, dopo parecchi anni. Qualche giorno fa, il primo giugno, l’on. Roberto Rao, dell’Unione di Centro, ha, attraverso interrogazione parlamentare, interpellato il ministro della difesa, Ignazio La Russa, sulla questione che da molto tempo va avanti. L’on. Rao ha chiesto al membro del governo spiegazioni sulla provenienza di parte dell’inquinamento da un deposito sotterrato di materiali ed armamenti classificati come “nucleari, batteriologici e chimici” su una riva del lago, sul territorio del comune di Ronciglione. Un’indagine è stata fatta qualche anno fa, e ne risulta, riportando le testuali parole del ministro, che: “Gli esiti di tale indagine geofisica hanno evidenziato la presenza di masse interrate di varia tipologia, tra cui alcune di natura ferro-magnetica, riconducibili anche ad eventuali ordigni inesplosi, un livello appena superiore – in tre dei dieci campioni di terreno prelevati – ai valori di concentrazione consentiti dalla legge n. 152 del 2006.”

Alla richiesta di delucidazioni per gli elevati valori, sopra i limiti stabiliti dalla legge, delle sostanze inquinanti presenti nelle acque del lago, il ministro ha risposto: “Faccio presente inoltre che al comune di Ronciglione il direttore tecnico e logistico di Interforze ha precisato che non esiste correlazione tra l’inquinamento del sito militare e quello del lago, in quanto – continua il ministro – il superamento del valore di soglia per l’arsenico, di poche parti per milione, presso il sito militare non può giustificare l’alta concentrazione rinvenuta nel sedime a centro lago. Inoltre nel lago sono state rinvenute anche altre concentrazioni di nichel e cadmio, che – termina La Russa- sicuramente non hanno alcuna relazione con le attività militari presenti o passate. La fonte di contaminazione dev’essere dunque ricercata altrove.”

L’on. Rao termina il proprio intervento ringraziando: “il signor Ministro, il quale ci dice praticamente che il lago è inquinato di suo. Tutto ciò ci tranquillizza sotto il profilo della difesa, ma, siccome anche il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, interrogato per le problematiche di competenza, ha risposto in maniera articolata, ma non ha fugato alcun dubbio, restano le preoccupazioni di chi beve quell’acqua, che di fatto – anche lei oggi lo conferma – è inquinata di suo.”

Infatti l’acqua è inquinata, e anche parecchio. C’è presenza di arsenico, soprattutto sul fondale del lago, forse dovuta all’origine vulcanica del lago. C’è cadmio e nichel. C’è una massiccia fioritura dell’alga rossa (Plankthotrix rubescens), pericolosissima per la salute umana. Ci sono fitofarmaci e fertilizzanti. Ci potrebbero essere scarichi urbani e industriali abusivi.

Fioritura dell'alga rossa

Conseguenza evidente dell’inquinamento potrebbe essere l’eutrofizzazione, cioè l’aumento della presenza di alghe in bacini a basso idrodinamismo. L’eutrofizzazione può essere: naturale (con durata millenaria, progressiva ed irreversibile)o artificiale (fenomeno molto rapido e reversibile). Quest’ultima è dovuta all’alta concentrazione di nutrienti in un piccolo, poco profondo e poco ricambiato invaso. Queste alte concentrazioni nutritive eccitano le alghe presenti e ne favoriscono la continua proliferazione e fioritura. Questi nutrienti arrivano al lago dall’attività agricola, dall’industria, dalle città e da tutte le attività limitrofe che si affacciano sul bacino. Tutte queste sostanze drogano le alghe, accelerandone la loro normale attività biologica. Ciò provoca la perdita di ossigeno da parte dell’acqua, perché completamente utilizzato nelle attività vegetative delle alghe ed in più la decomposizione delle stesse comporta assorbimento di ossigeno e morte di tutti gli organismi aerobi. Terminato l’ossigeno per decomporre le alghe e i pesci morti, subentra il meccanismo biologico della putrefazione anaerobica.

L’alga rossa produce una tossina la cui azione interessa fegato, polmoni e reni, e che è implicata nell’attivazione di oncogeni che innescano tumori epatici, gastrointestinali ed epiteliali. Le caratteristiche in oggetto configurano un pericolo per la vita di occasionali bagnanti che ingeriscano modiche quantità dell’acqua in caso di forte fioritura, o di sportivi predisposti ad attacchi allergici che nelle stesse condizioni percorrano il lago inalando la tossina volatile. Notevoli implicazioni sulla salute umana ha, inoltre, la scoperta che anche le piante possono accumulare micro cistine: è possibile che colonie di Mycrocistis aeruginosa e micro cistine sono trattenute nella lattuga irrigata con spray di acqua contaminata. I disturbi denunciati in queste occasioni sono ulcere in bocca, febbre, vomito, diarrea (in relazione alle tossine), irritazioni ad occhi, orecchie, e rash cutaneo.

La situazione è grave, e peggiorerà sempre più. Soluzioni possibili sono il cessare delle attività agricole, delle attività industriali e artigianali che si affacciano sul bacino del lago, oppure riconvertire tutti gli impianti ad attività senza alcun tipo di rifiuto che poi vada a finire nel lago. Si dovrebbero potenziare tutti gli impianti di depurazione dei centri abitati con maggiori controlli e maggiore manutenzione ordinaria. Tutte questo per diminuire l’apporto umano di sostanze nutrienti all’ecosistema del lago. Ma resta comunque il problema della potabilizzazione, che si potrebbe risolvere con l’istallazione di particolari filtri al carbone attivo e di impianti di dearsenificazione delle acque. In più, non si risolve la causa geofisica dell’attuale situazione: il ristagno e il basso idrodinamismo delle acque.

Uno sguardo generale sulle attuali attività estrattive.

Nel 2004, nel comune di Calvello, i primi sintomi di un inquinamento forte e indisturbato. Infatti la fonte Acqua dell’Abete, a 1200 metri sul livello del mare, risultò inquinata, e i prelievi effettuati, dopo le analisi dell’Arpab  vennero classificati con il codice CER 170503: terre e rocce contenenti sostanze pericolose. Stessa situazione si verificò nel 2008, e anche in questa situazione ci fu il sequestro della zona interessata e  l’interessamento della Procura di Potenza. In entrambi i casi l’inquinamento si è presentato sotto forma di affioramenti oleosi. La spiegazione potrebbe essere solo una: le trivellazioni perenni che si svolgono a poca distanza dalla sorgente, in una posizione sopraelevata rispetto ad essa, al pozzo Cerro Falcone 2. In più, dopo ciò che accadde nel 2008, la Ola, Organizzazione lucana ambientalista, chiese all’Assessore all’Ambiente della Regione Basilicata, Vincenzo Santochirico, di conoscere i motivi ufficiali alla base del sequestro dell’area; la natura e la quantità degli inquinanti rinvenuti; le azioni intraprese a tutela della salute pubblica e quella degli animali; le azioni intraprese nei confronti dei responsabili dell’inquinamento; le azioni di monitoraggio ambientale sul sito di cui trattasi, ma l’Assessore non si è degnato di rispondere.

Centro oli di Viggiano. Fonte: Ola

In più va considerato l’inquinamento dal idrogeno solforato, indicato con la sigla H2S. Da uno studio fatto dalla dottoressa Maria Rita D’Orsogna, del Department of Biomathematics dell’University of California nel 2007, si legge chiaramente: “La letteratura scientifica è unanime nel riconoscere la tossicità dell’H2S. Una esposizione ad alte dosi può anche provocare la morte istantanea. Esiste infatti ampia documentazione di accidentale emissione di H2S da impianti di lavorazione del petrolio, anche in tempi recenti. L’evidenza medico-scientifica mostra come anche un contatto quotidiano con basse dosi di H2S, dell’ordine di grandezza delle normali immissioni nell’atmosfera da un centro di idro-desulfurizzazione, possa essere di alta tossicità sia per la salute umana che per quella animale e vegetale. L’ H2S, classificato ad alte concentrazioni come veleno, a basse dosi può causare disturbi neurologici, respiratori, motori, cardiaci e potrebbe essere collegato ad una maggiore incidenza di aborti spontanei nelle donne. A volte questi danni sono irreversibili. Da risultati recentissimi emerge anche la sua potenzialità, alle basse dosi, di stimolare la comparsa di cancro al colon. L’idrogeno solforato è una sostanza fortemente velenosa, la cui tossicità è paragonabile al cianuro. A temperatura ambiente, ed alle basse concentrazioni, l’idrogeno solforato è un gas incolore e che emana un caratteristico odore di uova marce. Il gas è infiammabile, e brucia con una fiamma bluastra a temperature superiori ai 260 °C. Concentrazioni di H2S nell’aria superiori al 4% sono esplosive. I tipici valori di H2S tipicamente immessi nell’atmosfera da processi naturali sono inferiori ad 1 ppb (una parte per bilione). Metà della popolazione è capace di riconoscere l’odore acre dell’H2S già a concentrazioni di 8 ppb, e il 90% riconosce il suo tipico odore a 50 ppb. L’H2S diventa però inodore a concentrazioni superiori alle 100 ppm (100 parti per milione) perché immediatamente paralizza il senso dell’olfatto. Classificazione dell’Unione Europea dell’H2S: estremamente infiammabile, molto tossico se inalato, pericoloso all’ambiente, estremamente tossico per gli organismi acquatici. Rapporto ufficiale delle Nazioni Unite: A causa dei gravi effetti tossici dovuti all’esposizione alle alte concentrazioni di H2S per brevi periodi di tempo, qualsiasi tipo di contatto con questa sostanza deve essere evitato.” Lascio a voi la lettura del resto del documento, che qui vi segnalo.

La tabella potrebbe rendervi l’idea, riassumendo in breve i dati derivanti dalla studio precedentemente citato:

Effetti dell’H2S a varie concentrazioni in aria:
Soglia dell’ attivazione dell’ odorato 0.05 ppm (= 50 ppb)
Odore offensivo 3 ppm
Soglia dei danni alla vista 50 ppm
Paralisi olfattoria 100 ppm
Edema polmonare, intossicazione acuta 300 ppm
Danni al sistema nervoso, apnea 500 ppm
Collasso, paralisi, morte immediata 1000 ppm


Nell’area interessata dall’estrazione petrolifera, fin dall’inizio delle perforazioni, non è mai stata istallata la rete di monitoraggio delle emissione delle attività estrattive, che invece doveva essere costruita dall’Eni, come stabilito dall’accordo con la Regione Basilicata. Non sono stati previsti piani di emergenza per eventuali pericoli derivanti dall’attività petrolifera e neanche piani di evacuazione per la popolazione, che dovevano essere prevista dalle amministrazioni comunali interessate e dall’Eni. Assente è anche l’accordo tra la Regione e l’Eni sullo smaltimento dell’oleodotto Viggiano-Taranto alla fine delle attività estrattive, ciò vuol dire che la tubazione rimarrà sotto terra anche dopo la fine del petrolio.

Bisogna considerare i gravi incidenti dovuti all’attività industriale: incidenti delle autocisterne, incidenti ai pozzi, incidenti al centro oli, incidenti alle tubazioni. “Incidenti” che hanno causato fuoriuscita di greggio e conseguente inquinamento dell’area circostante. In più bisogna considerare la fuoriuscita di idrogeno solforato dalle conseguenti perdite e rotture. Inquinamento che ha raggiunto picchi inauditi di tossicità per la popolazione, la vegetazione e la fauna. Danni che non sono stati ripagati dai colpevoli (l’Eni) e risanamenti delle aree inquinate fatti alla meno peggio.

Fonte: Ola

Altra grave mancanza nel rapporto istituzioni pubbliche locali e cittadino, si mostrano anche nell’impossibilità di reperire i dati sull’inquinamento dell’area dovuto alle estrazioni, che l’Eni mensilmente manda alla Regione Basilicata, alla Provincia di Potenza, al Comune di Viggiano e all’Arpab. Infatti, i questi dati non vengono pubblicati, né resi pubblici a chi volesse prenderne visione.

Va considerato anche il pericoloso e preoccupante silenzio istituzionale dell’amministrazione comunale di Policoro, sul cui territorio si svolgono trivellazioni ed estrazioni di gas, nelle vicinanze di case coloniche abitate, senza che il Comune ne riceva un qualche compenso in termini di royalties. In più, va aggiunto che non ci sono centraline di monitoraggio nella zona interessata e nessuno può fornire dati certi sull’inquinamento dovuto alle trivellazioni.

Pericolosa è anche la continua richiesta di autorizzazioni a trivellare o effettive trivellazioni a pochi metri dall’Ospedale di Villa d’Agri, dall’abitato agricolo nel Comune di Policoro, da alcuni condomini di Marconia, dalla diga del Pertusillo, nelle aree protette dei parchi naturali e delle riserve tutelate, come il parto Appennino Lucano – Val d’Agri Lagonegrese e il parco Gallipoli Cognato – Piccole Dolomiti Lucane, entrambe zone in cui è vietata qualsiasi attività di trivellazione, ma dove potrebbe iniziare l’attività estrattiva a causa di una modifica della Legge Regionale 47/97. Senza contare i continui via libera che la Regione Basilicata dà a nuove trivellazione e la rinuncia a sottoporre alla Valutazione di Impatto Ambientale i vari progetti delle compagnie petrolifere.

I costi delle attività estrattive che vengono sostenuti dalle ditte di estrazione ammontano a circa 6,3 euro al barile. Le royalties pagate alla regione sono stimate al 7% dei prezzi di mercato di cui il 15% va alle amministrazioni locali. L’Eni afferma che alla fine del 2007 ha speso 368 milioni di euro, con una produzione lorda del valore di circa 5,2 miliardi di euro. La convenienza è spudoratamente palese e noi lucani non ne beneficiamo affatto.

In una conferenza stampa di febbraio scorso, il Wwf Basilicata ha illustrato l’attuale situazione delle attività estrattive della Val d’Agri. Si legge espressamente dal sito dell’organizzazione ambientalista: “Il perimetro del parco è stato discusso metro per metro, disegnato più in funzione delle attività estrattive che non delle esigenze di conservazione della natura e di promozione territoriale.” In più: “Le carte in nostro possesso in merito al permesso di ricerca ANZI, indicherebbero una palese violazione del decreto istitutivo del Parco che esplicitamente vieta all’interno dell’area protetta non solo le attività estrattive, ma anche quelle di ispezione e ricerca.” Si legge ancora: “Il WWF ha presentato in conferenza alcuni documenti con dati eloquenti sulla palese inottemperanza degli impegni assunti con l’intesa Regione – ENI del 1999 e sull’utilizzo fortemente discutibile delle royalities riconosciute alla Regione. Preoccupa anche la carenza delle analisi sulle sostanze che dovevano essere costantemente monitorate per quanto riguarda le componenti di  H2S (Idrogeno Solforato), il benzene, gli IPA (idrocarburi policiclici aromatici) ed i COV (composti organici volatili). In merito all’utilizzo delle royalties, invece, emerge chiaramente  che l’attribuzione dei fondi ai Comuni risponde più ad una logica di suddivisione che non di progetto complessivo in cui le tematiche ambientali diventano riferimento di scelte per lo sviluppo dal basso del sistema economico basato su investimenti  di media e lunga durata.”

Curiosità n°1, tutta lucana: sono state trovate tracce di idrocarburi dentro il miele, cosa mai vista al mondo.

Curiosità n°2: neonati sottoposti ad esalazioni petrolifere presentano uno sviluppo neurologico deficitario, quindi fortemente compromessi nella loro attività di ragionare, di sviluppare un pensiero critico (potrebbe interessare a Berlusconi).

Curiosità n°3: le royalties in Libia sono al 90%, Norvegia 80%, Canada 60%. In Italia al 7% su terraferma e 4% in mare. In più se viene estratto gas o petrolio sotto un determinato volume massimo, non si paga assolutamente nulla.

Curiosità n°4: le società petrolifere estere, nei loro comunicati ai loro azionisti, dichiarano di voler investire fortemente in Italia perché i vincoli ambientali e i controlli sono praticamente assenti, le royalties sono basse, la legislazione è favorevole e non restrittiva, e dulcis in fundo, citando espressamente: “in Italia siamo a basso rischio politico.

Insomma, ci prendono per il culo. Ma i politici italiani cosa pensano di queste espressioni dei petrolieri? O sono tutti piegati a 90° a ricercare il basso rischio politico? Bisogna alzare la voce e difenderci e, soprattutto far rispettare le leggi, e i politici devono essere dalla nostra parte.

Una ricchezza senza fondo, ma solo per le multinazionali ed i politici.

L’estrazione del petrolio in Basilicata è stata una vera e propria manna dal cielo. Molti di voi potrebbero dire “dipende”. Infatti, tutti ne siamo consapevoli: 4-5 persone per paese hanno avuto immensi benefici dal petrolio, immense ricchezze, immense liquidità monetarie. Ma la ricchezza di queste 4-5 persone per paese, vale la miseria, i tumori, i malanni, l’inquinamento, la corruzione, la disoccupazione, la svalutazione dei patrimoni, la perdita di produttività, l’emigrazione, la rabbia di tutti gli altri cittadini che nello stesso paese vivono? La realtà è questa, e i politici che la negano sono complici e corrotti di questo sistema messo in piedi dalle multinazionali del petrolio, dedite solo al profitto. Perché la verità è una: o i politici sono fessi o sono corrotti. A voi la risposta.

Il petrolio non ha portato lavoro, perché gli esperti, gli ingegneri, i dirigenti erano già tutti dipendenti delle ditte che estraggono petrolio. Solo un po’ di manovalanza è stata utilizzata nei vari processi lavorativi, ma tutti lavoratori raccomandati e spinti dalle amministrazioni comunali del territorio interessato dalle estrazioni, nonché poi tutti licenziati alla fine dei lavori.

Royalties bassissime, le più basse del mondo, il 7%, cioè quasi mezzo miliardo di euro all’anno. Il giochetto sta tutto nel fatto che fin quando i pozzi non produrranno più di 100 mila barili al giorno, l’Eni non pagherà più del misero 7% stabilito, ma secondo voi l’Eni è così stupida da non aver trovato qualche stratagemma per evitare un aumento delle royalties? C’è qualcuno che guadagna troppo e c’è qualcuno che nasconde sotto il tappeto tutti i reati. Tutti gli abitanti delle vallate interessate si chiedono: quanti soldi hanno incassato queste persone? Dove sono andati a finire questi soldi? Ai cittadini è rimasta solo la puzza e i patrimoni svalutati, senza contare ciò che hanno perso: tutto lo splendore del territorio, la ricchezza della natura e la redditività del loro lavoro agricolo.

Si aspettava sviluppo e lavoro, ricchezza e futuro, ed infatti: sviluppo per le multinazionali e i politici del posto, lavoro per i lavoratori delle grandi ditte, ricchezza per tutti i corrotti che ci hanno mangiato e ci mangiano ancora, e futuro per le famiglie delle bestie che ancora oggi negano, nascondono e difendono chi ha eseguito uno degli scempi più grandi della Basilicata. Il petrolio porta solo distruzione, qualche milionario e basta, il resto è povertà ed emigrazione.

Senza contare tutti gli incidenti che le autocisterne subiscono nel tragitto dai pozzi fino ai centri oli, si parla di decine di incidenti testimoniati dagli abitanti della zona. Dei piccoli disastri ambientali che però hanno una gravissima valenza, per molte ragioni: l’Eni nega quasi tutti gli incidenti verificatisi, esegue delle bonifiche di nascosto e senza nessun parametro di sicurezza, i carabinieri e la polizia, anche se chiamati, non intervengono sul luogo dell’incidente e nessun politico, o altra istituzione, prende di petto questa situazione. Insomma una mafia vera e propria.

E non si può tacere neanche il fatto che nell’eseguire i vari lavori di perforazione sono state violate parecchie norme. Sono i sindaci che negano i controlli, sono i sindaci che negano la verità, sono i sindaci che negano il futuro ai loro territori e cittadini. Il petrolio estratto in Basilicata copre il 6% del fabbisogno nazionale e l’Italia intera non ne trae beneficio, ma neanche il territorio lucano. Infatti i sindaci non sanno come spendere i soldi derivanti dalle royalties.

Ma io mi chiedo: è mai possibile avere i politici, la classe dirigenziale, le forze di polizia, il corpo forestale dello Stato, i carabinieri, i sindaci, i presidenti, gli assessori corrotti, inetti, egoisti, senza il coraggio di denunciare, buoni solo a riempirsi le tasche di mazzette, pronti a svendersi la nostra terra e la loro anima, pronti a negare tutto e il contrario di tutto, pronti a nascondere ed insabbiare come sempre hanno fatto, anche con le navi dei veleni, con il sito industriale di Titi, con la Val Basento? È uno schifo essere amministrati da degli schiavisti senza scrupoli e senza dignità. È uno schifo che partecipino a queste nefandezze anche le forze dell’ordine e di tutela del territorio. Ma è possibile trovarsi indifesi di fronte all’intera e demoniaca azione dei signoroni, senza avere dalla nostra parte nessuno? I magistrati che cosa fanno? Pensano al principe Emanuele Filiberto e a Fabrizio Corona? Ma pensate alle migliaia di persone che ogni giorno muoiono di rabbia, nel vedersi derubati ogni giorno di più, e di malanni fisici, nel respirare il tanfo dell’inferno sotterraneo.

In più c’è da aggiungere un comunicato stampa emesso dal Wwf , che dice espressamente:

“Oliveto Lucano, Palazzo San Gervasio e Mar Ionio i permessi di ricerca che rischiano di ampliare a breve oltre ogni misura il territorio regionale interessato dalle attività petrolifere.
Mentre la marea nera nel Golfo del Messico sta causando una delle più gravi catastrofi ambientali mai verificate con danni incalcolabili agli ecosistemi ed alle economie delle popolazioni costiere ed il Presidente Obama impone il blocco delle trivellazioni in mare, la Basilicata è sempre più assediata dalle compagnie petrolifere che non hanno alcun riguardo per il territorio ed i suoi abitanti.

La scorsa settimana infatti il Presidente del WWF Italia, Avv. Stefano Leoni, è dovuto intervenire presso il Ministero dello Sviluppo Economico chiedendo di non autorizzare il permesso di ricerca idrocarburi “Oliveto Lucano” richiesto dalla Esso e dalla Total, che ricade in buona parte nel Parco Regionale Gallipoli Cognato – Piccole Dolomiti Lucane, istituito con l.r. n.47/1997 che all’art. 19 prevede espressamente il “divieto di ricerca ed estrazione di idrocarburi liquidi e gassosi” ; l’area inoltre interessa anche le Aree SIC e ZPS di “Foresta Gallipoli Cognato ” “Bosco di Montepiano” e “Dolomiti di Pietrapertosa , individuate per la presenza di numerosi habitat e specie prioritarie tutelate dalla legislazione comunitaria.

Fortissima preoccupazione ha espresso anche il WWF Italia nel comunicato stampa diramato il 1° maggio sull’autorizzazione rilasciata dal dimissionario Ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola a Shell Italia per il permesso di ricerca petrolifera offshore nel Golfo di Taranto che interessa il tratto di mare antistante la costa che da Trebisacce arriva quasi sino a Nova Siri.

Il WWF sta lavorando inoltre per presentare proprie osservazioni nel procedimento relativo alla VIA presentata dalla società Texana “Aleanna Resorces LLC” al Dipartimento Ambiente della Regione Basilicata per il permesso di ricerca di idrocarburi “Palazzo San Gervasio”.”

Qualcosa che interessa da vicino anche molte altre regioni dell’Italia, tra cui la Sicilia e la Puglia. per capire quale sia la situazione in queste realtà, vi segnalo l’articolo di Gaspare Compagno, intitolato: “La Sicilia e il Petrolio: possibile sviluppo per i Siciliani, o ennesima ruberia?”

Una risorsa da incentivare.

Un mondo, quello delle biomasse, che spazia in tutte le direzioni, dal biogas prodotto dai rifiuti solidi urbani biodegradabili (la parte organica), dal letame degli animali allevati nelle stalle, dai bioliquidi, come il biodiesel, fino alle biomasse in senso stretto, cioè residui legnosi, derivanti dalle industrie del legno, dalla pulizia del sottobosco, dall’utilizzo dei rimboschimenti e dal loro ringiovanimento, dalle rimanenze legnose derivanti dalla potatura e da altre attività agricole, e dagli scarti delle aziende agroalimentari, che vengono gassificati o direttamente bruciati in enormi forni per la produzione di energia elettrica e di calore per le città.

Alcuni dati possono aiutarci a capire la situazione attuale (fino al 31/12/2008) della nostra regione e di quelle vicine. Infatti, ecco la potenza efficiente lorda prodotta e la numerosità degli impianti da Biomasse, Rifiuti solidi urbani (che comprendono anche gli inceneritori e quindi anche la Fenice in Basilicata), Biogas e Bioliquidi per Regione:

2007 2008
MW MW
Campania 14 26,1 16 42,8
Puglia 25 86 28 139
Basilicata 1 7,2 2 23,8
Calabria 8 119,6 9 123,6

In più, la produzione da impianti alimentati da Biomasse, Rifiuti solidi urbani biodegradabili , Biogas e Bioliquidi per Regione nel 2008:

GWh Rb Biomasse Biogas Bioliquidi Totale
Campania 1 ,1 70,9 0,1 72,1
Puglia 38,5 695,8 66 800,3
Basilicata 14,2 9,9 24,1
Calabria 36,5 742,5 10,5 789,6

In Italia soltanto l’1,9% di energia elettrica è prodotto da sostanze biologiche e dai loro sottoprodotti, e la Basilicata, a quel 1,9%, cioè 5.966,3 GWh, contribuisce solo con un misero 0,4%, contro il 13,4% della Puglia e il 13,2% della Calabria.

La Basilicata è l’unica regione italiana a non sfruttare le biomasse, infatti non esistono impianti funzionanti così alimentati, come nella maggior parte del territorio nazionale. Solo 28 province su più di cento hanno almeno un impianto a biomasse, le altre ne sono del tutto prive.

Altro record lucano: la totale assenza di impianti a biogas sul nostro territorio regionale. Siamo l’unica regione italiana ad esserne priva. Le possibili motivazioni sono anche riconducibili all’assenza di grandi allevamenti di bovini, necessari per la produzione di biogas, e conseguentemente di energia dalla sua combustione.

Il Comitato “Uno si distrae al bivio”, nato contro la costruzione della centrale a biomasse che doveva sorgere nel comune di Tricarico (MT), che «si oppone al proliferare di impianti a combustione di biomassa di grossa taglia per la produzione di energia elettrica e termica, sottolineando che al contempo si evidenziava come la ricerca scientifica sembra confermare una grande disponibilità di biomasse sul territorio e sostenere la possibilità di farne uso senza arrecare danni all’ambiente. […] si elencavano le centrali a biomassa autorizzate, o di cui è stata richiesta l’autorizzazione ad operare in Basilicata: la centrale Enel del Mercure; il termodistruttore/inceneritore di Potenza; la centrale da 13 MW di Ferrandina; la centrale da 14 MW al bivio di Tricarico/Grassano; la centrale a oli vegetali da 10MW della Tecnoparco di Pisticci, […] la centrale a biomasse di Acinello di Stigliano, un impianto che con i suoi 35 MW di potenza elettrica sarebbe tra i più grandi del genere in Europa, un “mostro”,“una centrale a biomaschera”, come la definì il “Comitato civico territoriale dei Calanchi No centrale di Acinello”, […] ed anche il termovalorizzatore Fenice, come detto nel Piear (Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale) , viene considerato come un impianto a biomasse di 7,2 MW. […] Quelle centrali sarebbero, poi, inefficienti (circa i due terzi dell’energia termica prodotta dalla combustione andrà semplicemente dispersa nell’ambiente) e perfino insostenibili economicamente (una volta che dovessero esaurirsi o ridursi gli incentivi dei certificati verdi, pagati anche dai cittadini con la bolletta della luce, e dei Cip6, le centrali potrebbero chiudere e lasciare nuovi cimiteri industriali). Altra cosa sarebbero gli impianti a biomassa di bassa taglia (max 500 KW di potenza elettrica installata), dimensionati in base ad un bacino locale di approvvigionamento della biomassa, collegati ad una filiera corta agro energetica capace di dare redditi complementari a quelli rivenienti dalla produzione agricola, in grado di offrire energia pulita ed economica alla comunità locale. Ed a tale proposito è da far rilevare che nel nuovo Piear approvato dalla Regione, le scelte politiche vanno nella direzione di realizzare impianti di piccola taglia e con una filiera corta (entro un raggio di 70 Km dall’impianto).»

È anche comprensibile il timore dei cittadini nei confronti delle centrali alimentate a biomasse, un timore che deriva dal cattivo utilizzo che i gestori ne fanno. Infatti, si è parlato di possibili utilizzi fuorvianti delle suddette centrali, in cui verrebbero inceneriti non solo biomasse, ma anche rifiuti solidi urbani, che invece si devono smaltire in discarica.

Visionando un’inchiesta di “Presadiretta”, la trasmissione di Riccardo Iacona e della sua squadra di inviati andata in onda domenica 7 Marzo 2010, su Rai Tre, intitolata: Sole Vento Alberi, segnalataci dal nostro lettore Vincenzo, che ringrazio, e che vi consiglio di guardare, si apprendono parecchie notizie utili, e in riguardo alla Basilicata, vi riporto un passaggio della puntata molto interessante: “Gestire i rimboschimenti è un problema e un elevato costo per lo Stato. Lo dice il Professor Riccardo Valentini, biofisico, che dirige il laboratorio di Ecologia Forestale della Facoltà di Agraria dell’Università di Viterbo. Nel suo dipartimento, la dottoressa Anna Barbati, ha fatto un lavoro di ricerca unico in Italia: è riuscita a calcolare quanti alberi e quanta biomassa si potrebbe utilizzare in Italia per fare energia verde, regione per regione.”

E si legge sui dati, che le nostre due province possono produrre annualmente 275.137 tonnellate di biomasse, 42.339 nella provincia di Matera e ben 232.798 nella provincia di Potenza. Per fare un paragone: equivalgono a 400 mila tonnellate all’anno di CO2 evitate, se si utilizzassero le sole biomasse della provincia di Potenza, per produrre energia elettrica e riscaldamento, cioè 4 milioni di euro all’anno di quote di CO2 spendibili nella provincia di riferimento. In Italia si parla di 73 milioni di tonnellate di CO2 risparmiate all’ambiente e di circa un miliardo di euro di quote ricavabili.

Giusto per farci un’idea, entro il 2020 l’Italia deve abbattere le emissioni di anidride carbonica di 100 milioni di tonnellate all’anno, e se avessimo utilizzato gli alberi e le biomasse italiane, già avremmo svolto i tre quarti del nostro compito ambientale, ma invece noi italiani preferiamo investire miliardi di miliardi di euro per creare centrali nucleari di vecchie generazioni, di ditte francesi in cerca di mercati, con impatto ambientale e sociale altissimo, con il gravoso problema delle scorie nucleari, con la secolare presenza dell’investimento.

Si parla infatti di 120-140 anni per costruire, mettere in funzione, far produrre e dismettere una centrale nucleare. 140 anni in cui può succedere di tutto. Solo per fare un raffronto: la Germania, e non solo, ha già bloccato da molti anni la costruzione di nuove centrali nucleari e nei prossimi anni dismetterà quelle presenti sul territorio. In oltre, entro il 2020 produrrà il 50-60% dell’energia elettrica nazionale con fonti rinnovabili. Chissà la Germania tra 140 anni come produrrà energia, e chissà se ci sarà ancora Berlusconi e Scajola a rassicurarci che le centrali italiane presto entreranno in funzione. Sarebbe il paradosso.

Di Mauro a casa subito.

L’Arbea è l’agenzia della Regione Basilicata per l’erogazione in agricoltura. Un ente nato per snellire, controllare ed erogare i pagamenti comunitari agli agricoltori a cui spettavano. Un ente nato bene, ma cresciuto malissimo, tanto da essere definito un tumore per la Regione. Un ente che non paga e se paga lo fa in ritardo e a scaglioni, un ente che controlla e scarica le colpe dei mancati pagamenti sugli agricoltori o sui Caa, centri autorizzati di assistenza agricoli, sparsi su tutto il territorio regionale, giustificandosi di possibili irregolarità nella compilazione delle pratiche e di possibili incongruenze tra le dichiarazioni degli agricoltori e la realtà dei fatti. Resta il fatto che i pagamenti non sono stati affatto snelliti, questa è l’unica cosa certa.

I dirigenti dell’Arbea sostengono che è la carenza di personale la principale causa dei ritardi. Ma stiamo parlando dell’Arbea, agenzia regionale, che a detta del presidente della Coldiretti Basilicata, Piergiorgio Quarto, «è una struttura che grava sulle finanze regionali in maniera consistente e che si appresta a raggiungere una pianta organica la più alta degli Organismo pagatori regionali d’Italia, che, nonostante il già cospicuo numero di personale, ha fatto – ha continuato Quarto – sempre ricorso a società esterne per svolgere i propri compiti istituzionali senza neanche raggiungere le richieste di certificazioni comunitarie di corretta funzionalità». Ben presto ci saranno forti mobilitazioni degli agricoltori, «che Coldiretti non disdegnerà di accompagnare facendo evidenziare la completa assenza di risposte o decisioni che la stessa Giunta Regionale finora non ha conseguito sia in termini di obiettivi che di certezze».

In questi ultimi giorni «siamo giunti al termine – ha detto l’assessore all’Agricoltura Vincenzo Viti – di una difficile stagione per l’Arbea». Nei prossimi mesi «saranno realizzate le necessarie azioni di rilancio di uno strumento che dovrà essere posto nelle condizioni di corrispondere efficacemente non solo alla sua missione ma a una funziona anticiclica a sostegno dell’agricoltura lucana». L’assessore Viti  ringrazia il direttore Gabriele Di Mauro «che ha svolto il suo compito in un contesto difficile per il settore agricolo » confermando di rendere l’ente pagatore «sempre più funzionale alle esigenze ed alle attese del mondo agricolo lucano».

Immediata la replica di Di Mauro: «Il mio incarico è finito a febbraio e attualmente sono in regime di prorogatio. Non mi sono dimesso anche se non sono interessato al rinnovo dell’incarico». Quest’ultima nota del dirigente Arbea ha fatto sollevare, pochi giorni fa, un alto polverone istituzionale, in cui tutti, assessore Viti, presidente Defilippo, presidente Di Mauro, giornalisti, profusero nella vicenda tanto clamore da far ben sperare i molto interessati agricoltori in una nuova rinascita dell’ente, ma si trattava solo di ardore elettorale fine a se stesso.

Filippo Massaro, presidente del Csail, comitato da mesi impegnato per la tutela dei diritti degli agricoltori in Basilicata si esprime sull’«ennesima inchiesta (di pochi mesi fa) in cui è incappato il direttore generale dell’Arbea Di Mauro, questa volta per iniziativa della Corte dei Conti che lo ha condannato a risarcire allo Stato il danno erariale provocato dal ricorso eccessivo allo strumento delle consulenze esterne, conferma che la situazione dell’Arbea è diventata una “emergenza morale” che istituzioni e politica non possono ulteriormente tollerare. »

Da un articolo di Mario Petrone, commentatore politico da tempo libero, leggiamo: «Si nota, certo, una fortissima battaglia politica ma non si vede ragionare e proporre cose funzionali a risolvere il problema dell’agricoltore. Si rischia, insomma, che l’agricoltore ancora una volta finisca come l’asino in mezzo ai suoni ovvero intronato e senza risultato. Qui allora ci permettiamo suggerire – consapevoli che i consigli gratuiti non sono apprezzati – di rendersi conto che le responsabilità sono sempre personali e che se ognuno venisse chiamato a rispondere per le proprie responsabilità ai vari livelli, questo ed altri problemi sarebbero risolti da quel dì.»

Una questione che bisogna risolvere. I soldi ci sono, l’ente pagatore c’è, i lavoratori nell’ente pagatore ci sono e sono ben pagati, le consulenze esterne ci sono state, gli agricoltori meritevoli del pagamento ci sono e sono incazzati neri, cosa manca? Una Giunta regionale con gli attributi che mandi definitivamente in pensione Di Mauro.

Riceviamo e pubblichiamo

Ormai pochi politici hanno a cuore le istanze degli imprenditori agricoli.

In un situazione di emergenza e di declino costante, il settore primario italiano arranca in tutte le direzioni, senza riscontrare ascolto e rassicurazioni da nessuna parte politica. Tutti se ne ricordano solo in campagna elettorale, pochi raccolgono la sfida di una radicale rivoluzione dell’agricoltura italiana, e soprattutto meridionale.

La vita parlamentare è scandita dagli articolati proposti dal governo e dai singoli ministri, lasciando poco spazio alle iniziative parlamentari. E così vengono portate avanti le volontà politiche dei ministri più laboriosi del governo Berlusconi: i leghisti, e per quel che riguarda l’agricoltura, il ministro Luca Zaia, che a quanto pare ha svolto un’attività ministeriale di altissima qualità e di ampio respiro istituzionale. Ma nella realtà cosa è stato fatto? Poco. Qualche decreto per salvare gli allevatori che, non rispettando le leggi, hanno prodotto più latte bovino del dovuto, e a cui è stata concessa una moratoria indecente e irrispettosa degli allevatori onesti che hanno sempre svolto il loro mestiere nel rispetto delle norme.

C’è bisogno di maggiore attenzione politica sul tema. Moltissime aziende ormai sono ferme e chi resiste, riesce a malapena a tirare avanti. Quasi tutte le aziende non sono economicamente produttive, né sono più nemmeno in grado di affrontare investimenti per le necessarie innovazioni, nemmeno con l’aiuto di contributi di settore messi in campo dai piani regionali. Inoltre, fatto importantissimo, manca proprio la fiducia in un futuro migliore.

I partiti, e specialmente in partiti moderati o i singoli politici seri, devono riuscire, a farsi interpreti, delle istanze che giungono dal mondo agricolo, per cultura e tradizione, politicamente sempre vicino alle posizioni moderate e cattoliche, se si vuole realmente mettere insieme i moderati italiani, dando risposte concrete, sia a livello regionale che a livello nazionale e comunitario.

L’agricoltura italiana ha una grande ricchezza di qualità e varietà di prodotti, che a livello comunitario faticano a trovare il giusto riconoscimento, contro gli interessi industriali delle grandi lobby alimentariste europee, che spingono verso la standardizzazione e la riduzione della produzione a pochi prodotti facilmente industrializzabili. I nostri prodotti di altissima qualità, in molti casi, praticamente sono a tutti gli effetti biologici, ma spesso  restano appesi agli alberi perché penalizzati dalla regolamentazione del mercato europeo.

Occorre ripensare tutto il sistema degli aiuti, spesso fine a sé stessi, per incentivare il lavoro delle aziende agricole e promuovere le filiera agro-alimentari che hanno enormi potenzialità di penetrare nel mercato anche delle esportazioni, estendendole fino alla commercializzazione, lasciando così, il valore aggiunto agli agricoltori, per creare occupazione e sviluppo.

Non dimentichiamo, che abbiamo già lasciato il settore manifatturiero ai cinesi, e che l’agricoltura rappresenta l’unico settore per dare occupazione a tante persone, che altrimenti andrebbero solo ad ingrossare le file dei disoccupati.

Francesco

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